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Notizie sul whisky

Fino all’ultima goccia…

Che impatto avrà il rinsing delle botti ex bourbon sui whisky invecchiati?

Quando si parla di invecchiamento del whisky, soprattutto per quanto riguarda quello scozzese e irlandese, le botti più comuni sono quelle ex bourbon ed ex sherry, con tutta la narrazione su come l’uso sia nato anche dalla comodità di riciclare e dare nuova vita a questi contenitori di legno quando non fossero più utilizzabili (per il whiskey americano) o perché svuotati dopo averne imbottigliato in loco il contenuto (per lo sherry).

È noto come le botti ex sherry siano ormai diventate sempre più rare e costose, e sempre più comune è la pratica di farle realizzare ad hoc per l’invecchiamento, senza quindi che abbiano mai contenuto lo sherry per la maturazione ma solo per “insaporirle” con il cosiddetto seasoning.

Per fortuna che ci sono le botti ex bourbon, di cui gli americani non sanno cosa farsene dopo l’invecchiamento del proprio whiskey e che continuano ad arrivare copiose in Europa, ricche dei residui del prezioso nettare… o no?

Vuoi la crisi globale, vuoi la necessità meramente economica di massimizzare la produzione (e il profitto), sta diventando sempre più comune negli USA la pratica del rinsing, ovvero del “risciacquo” delle botti che hanno contenuto il bourbon: riempiono le botti svuotate con diversi litri di acqua, e magari con l’aiuto di getti ad alta pressione ne estraggono fino all’ultimo goccia di liquido invecchiato che possa esservi rimasta. Quello che si ottiene viene poi utilizzato per abbassare la gradazione del whiskey, con relativo risparmio sui costi di gestione.

Giusto.
Ma poi, quando la botte finisce in Europa o in altri paesi per l’invecchiamento, che succede? Succede che non ha più la stessa incisività di una classica botte first fill, con relativo impatto sull’invecchiamento del new make che vi viene versato, a volte in modo del tutto inatteso perché quasi nessuna delle distillerie statunitensi informa l’acquirente di questa pratica, specie quando quest’ultimo l’ha acquistata da un intermediario (broker) e non dal produttore stesso.
La differenza non è da poco, creando di fatto due categorie distinte di botti ex bourbon, con quelle classiche (non risciacquate) considerate ora come premium e le rinsed, quando note, viste come di valore inferiore. Certo, sui grandi numeri l’impatto può essere relativo, soprattutto per le multinazionali che, essendo proprietarie di distillerie statunitensi quanto europee, possono avere un controllo maggiore su quali botti circolino tra le distillerie, ma per i piccoli produttori, specie quando artigianali, la cosa può diventare un problema, ottenendo risultati ben diversi da quelli attesi non avendo coscienza di quale tipo di botte gli sia capitata per le mani.

C’è chi, come John Glaser di Compass Box, è pienamente cosciente del problema, utilizzandolo a proprio favore con un uso consapevole di queste botti per i propri prodotti, come il blended Orchard House, e che pensa di applicare alle botti ex bourbon ciò che già è in uso per quelle ex sherry, ovvero il processo di seasoning.

Se non tutte le distillerie statunitensi fanno ancora uso di questa pratica, è solo questione di tempo e mezzi adeguati: la grande convenienza dettata dall’estrarre tutto il whiskey possibile dalla botte è troppo ghiotta per non diventare comune, il che cambierà radicalmente il modo in cui verrà gestita la cara, vecchia maturazione in botti ex bourbon.

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